C’era una volta, nel regno di Melilli, un castello dal nome altisonante: Fondazione P.V.
Nata per incantare il mondo con la cultura, prometteva trasparenza e meraviglie, come certe fiabe che iniziano con “e vissero felici e contenti”.
Ma nella torre più alta, qualcuno aveva rotto tutti gli specchi.
Nessuno poteva più vedere chi c’era dietro le tende. Si sussurrava di cento nomi, ma le uniche lettere che risuonavano nel cortile erano C., C., e ancora C.: una famiglia operosa, onnipresente, di cui si diceva avesse ramificazioni fino ai sotterranei della K.S.C., cooperativa diligente e fortunata che prendeva incarichi senza mai bussare alla porta.
Nel bosco vicino, sedeva su un trono discreto una vice dirigente comunale, madre affettuosa e garante silenziosa, che osservava ogni movimento con l’occhio discreto di chi sa, ma non parla.
I cantastorie del regno, intanto, raccontavano di consulenti magici, assunti con formule arcane mai udite, nascosti dietro pergamene che scomparivano sotto l’incantesimo chiamato omissis. Nessun cittadino del regno poteva sapere chi fossero, da dove venissero o quanto oro ricevessero. Nessuna chiamata, nessun bando, nessuna spiegazione. Solo nebbia e mistero.
Il castello ospitava anche feste. Alcuni dicono che, nelle notti di luna piena, alla Pirrera di San Antonio si ballasse e si brindasse fino all’alba, con calici colmi e musica alta. Ma nei libri contabili, neanche una riga. Nessun “era una volta” per quelle serate.
E poi c’erano i commercianti. Alcuni chiamati, altri accorsi. Tutti affascinati dalla promessa di esposizioni e visibilità. In cambio? Una borsa di monete. Parte andava, parte tornava. Ma nessuno seppe mai dove finisse la linea tra favore e favoreggiamento.
E come ogni favola che si rispetti, non mancava il viaggio nel Nuovo Mondo.
Una missione in America. Uomini e donne del regno, partiti oltre l’oceano per portare la luce di Melilli a popoli ignari. I testimoni giurano che tornarono con selfie, brochure e poco altro. Ma anche qui, niente prove. Nessuna cronaca ufficiale, nessuna fiaba scritta.
A orchestrare tutto, R.C., il burattinaio. Un uomo che non ama il palcoscenico, ma muove i fili dietro il sipario. Conosce tutti, controlla tutto, ma non firma nulla.
E sotto di lui, D.A., il cardinale grigio. Parla poco, scrive meno. Si dice che i documenti gli scivolino dalle mani come sabbia.
Accanto, E.M., che avrebbe il potere di fermare la giostra, ma resta immobile, forse ipnotizzata, forse convinta che restare zitti sia la migliore forma di sopravvivenza.
E così, tra brindisi non rendicontati, viaggi fiabeschi e incanti di carta, la Fondazione continua a vivere. Non si sa come, non si sa perché. Ma vive.
Protetta da un incantesimo antico: quello dell’oblio amministrativo.

