Roma – La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 28651/2025, ha messo l’ultimo sigillo giudiziario sulla vicenda giudiziaria di Antonio Calogero Montante, ex potente presidente di Confindustria Sicilia. Il verdetto respinge la gran parte dei ricorsi, confermando l’impianto accusatorio e la condanna per aver costituito, organizzato e diretto una vera e propria associazione criminale che intrecciava imprenditoria, pezzi delle forze dell’ordine e vertici istituzionali.
Secondo i giudici, a partire dal 2008 Montante aveva creato un “sistema” finalizzato al controllo clientelare di enti e associazioni di categoria, occupando posizioni chiave attraverso pratiche corruttive e l’accesso abusivo a sistemi informatici riservati. Il tutto, con la complicità di ufficiali della Guardia di Finanza, della Polizia di Stato e dei Carabinieri.
La Cassazione ha respinto le eccezioni difensive che parlavano di contestazioni generiche, incompetenza territoriale e intercettazioni inutilizzabili, ritenendo invece che le prove raccolte – comprese le dichiarazioni di ex alleati e i tracciamenti informatici – dimostrino un progetto illecito stabile e duraturo.
Nel fascicolo compaiono episodi emblematici:
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Accessi abusivi allo SDI per ottenere informazioni riservate su “nemici” e favorire “amici” del gruppo.
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Verifiche fiscali pilotate per colpire avversari o agevolare aziende compiacenti.
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Rivelazioni di segreti d’ufficio e “bonifiche” in immobili privati.
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Patti corruttivi che garantivano trasferimenti di ufficiali o assunzioni di familiari in cambio di informazioni e protezione.
Una trama che, come sottolineato da più cronisti e inchieste giornalistiche, compresa quella di Attilio Bolzoni, dimostra come il potere di Montante non fosse solo economico, ma soprattutto relazionale e politico. Un potere capace di costruire alleanze, zittire oppositori e penetrare nei meccanismi dello Stato fino a piegarli a interessi privati.
Con questa sentenza, il “sistema Montante” non è più soltanto un’espressione giornalistica o un sospetto: è una realtà processualmente accertata. Una vicenda che – al di là dei singoli capi di imputazione – racconta come in Sicilia, per anni, si sia potuto confondere legalità e illegalità in un’unica strategia di potere, fino a quando la magistratura non ha scoperchiato il vaso di Pandora.

