AGRIGENTO – Il 21 settembre 2025 ricorrerà il trentacinquesimo anniversario dell’omicidio del Beato Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia lungo la statale Agrigento-Caltanissetta nel 1990. In tutto il Paese, e in particolare nella sua città, la memoria del magistrato dovrebbe essere custodita con il massimo rispetto. Eppure, lo stato del busto in bronzo a lui dedicato in Largo Beato Rosario Angelo Livatino ad Agrigento racconta tutt’altra storia.

Le immagini parlano da sole: l’opera, collocata in un angolo del centro cittadino, appare segnata dal tempo e dall’incuria. La superficie in bronzo è corrosa, macchiata e scolorita, tanto da renderla quasi inguardabile. Non solo: il volto raffigurato non ha mai realmente somigliato al Beato, al punto che molti turisti e visitatori non riescono neppure a riconoscerlo.

Un altro elemento che lascia perplessi è l’assenza di una targhetta esplicativa: non c’è alcuna indicazione che chiarisca ai passanti chi sia il personaggio raffigurato e perché meriti un luogo della memoria. In una città che nel 2025 porta il titolo di Capitale Italiana della Cultura, lasciare un monumento così importante senza una chiara identificazione appare una mancanza grave, soprattutto considerando che sempre più visitatori vengono ad Agrigento anche per ripercorrere i luoghi legati alla figura del magistrato martire.

Sulla base riportata è incisa soltanto una frase:
“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.”
Parole potenti, che hanno fatto la storia, ma che da sole non bastano a spiegare chi sia stato Rosario Livatino, né il suo sacrificio.

A pochi giorni dall’anniversario, viene spontaneo chiedersi: è così che Agrigento intende onorare la memoria del suo Beato? Un busto che non somiglia al magistrato, logorato dal tempo, senza una targa che lo identifichi, rischia di trasformarsi in un monumento vuoto, incapace di trasmettere il messaggio e l’eredità di Livatino alle nuove generazioni e ai turisti che arrivano in città.

Il rischio è che, ancora una volta, la memoria venga affidata alle celebrazioni ufficiali e alle parole di circostanza, senza una vera cura dei segni tangibili che dovrebbero testimoniare la grandezza di chi ha dato la vita per la giustizia.

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