Nonostante le ingenti spese per la tutela degli animali, Agrigento resta piena di randagi. Ordinanze comunali dispongono reimmissioni in libertà senza soluzioni reali.

Agrigento continua a mostrarsi come il paradosso vivente della cattiva gestione: il Comune spende annualmente cifre da capogiro per il servizio di tutela e gestione degli animali, ma le strade restano colme di randagi che, unendosi, danno vita a veri e propri branchi. Un fenomeno che genera paura, disagio e pericoli concreti per i cittadini, senza che l’amministrazione comunale intervenga in modo risolutivo, come previsto dalle leggi vigenti.

Un esempio emblematico è l’Ordinanza Dirigenziale n. 224 del 22 agosto 2025 Ordinanza+Dirigenziale+2025-224, con cui il dirigente del Settore Territorio, Ambiente e Sanità del Comune di Agrigento, Ing. Alberto Avenia, ha autorizzato la reimmissione in libertà di un cane randagio già microchippato, dopo il parere favorevole dell’ASP e il silenzio-assenso delle associazioni animaliste interpellate. Un atto amministrativo formalmente legittimo, ma che fotografa una realtà drammatica: invece di incentivare adozioni, prevenire il randagismo con campagne di sterilizzazione e creare rifugi idonei, si continua a liberare cani sul territorio, alimentando un problema che ormai ha assunto dimensioni emergenziali.

Il Comune, da anni, destina fondi ingenti per convenzioni con canili privati e per servizi legati al “benessere animale”. Eppure, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: piazze, periferie e quartieri popolari pullulano di branchi di randagi, spesso aggressivi, che mettono a rischio l’incolumità pubblica e testimoniano l’assenza di una strategia concreta di controllo.

Non è solo una questione di decoro urbano, ma di sicurezza e legalità: la normativa nazionale e regionale impone ai Comuni di tutelare i cittadini e gli stessi animali, prevedendo politiche di prevenzione e gestione responsabile. Ma ad Agrigento, al contrario, sembra che le ordinanze si limitino a certificare l’impotenza della macchina amministrativa.

La domanda, inevitabile, resta sospesa: come può una città che spende milioni di euro ogni anno per la gestione dei randagi ritrovarsi ancora ostaggio di branchi pericolosi? E soprattutto, fino a quando i cittadini dovranno pagare il prezzo – economico e sociale – di una gestione che non risolve, ma amplifica il problema?

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