Niente fiori, niente coroncine, ogni tanto qualche sacco pieno di spazzatura, pannolini abbandonati, un senso di solitudine devastante, solo un bandierina di Legambiente ormai usurata. Tutto questo circonda la particolare immagine in metallo raffigurante il volto di Antonino Saetta, il giudice ammazzato dalla mafia il 25 settembre 1988 insieme al figlio Stefano. Un luogo della memoria che nessuno onora come dovrebbe, privo di quel trasporto emotivo e popolare che avvolge – giustamente – altri martiri di Cosa nostra, assassinati negli scorsi decenni sulle strade agrigentine e siciliane. Qui non si vogliono stilare graduatorie di merito tra caduti nella guerra alla mafia, ma ricordare una figura esemplare quando si parla di senso dello Stato e rispetto delle sue leggi. Per sintetizzare la biografia di questo gigante, ci soccorre Wikipedia: Saetta, dopo gli anni Settanta vissuti in giro per l’Italia, con tappa importante a Genova, “nel periodo 1985-86, fu Presidente della Corte d’assise d’Appello di Caltanissetta ed è qui che si occupò, per la prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia. Quello sulla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, e i cui imputati erano, tra gli altri, i “Greco” di Ciaculli, vertici indiscussi della mafia di allora, e pur tuttavia incensurati. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di I grado. Antonino Saetta fu poi nuovamente a Palermo quale Presidente della I sezione della Corte d’Assise d’Appello. Qui si occupò di altri importanti processi di mafia, in particolare quello sull’uccisione del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Vincenzo Puccio, Armando Bonanno, Giuseppe Madonia.
La condanna di cosa nostra
Pochi mesi dopo la conclusione di tale processo e pochi giorni dopo il deposito della motivazione della sentenza che aveva condannato all’ergastolo gli imputati, Saetta fu assassinato, insieme al figlio Stefano, attorno alla mezzanotte del 25 settembre 1988, sulla Ss 640 Agrigento-Caltanissetta all’altezza del viadotto Giulfo, di ritorno a Palermo dopo avere assistito a Canicattì al battesimo di un nipote. Il giudice e il figlio erano a bordo della loro vettura, una Lancia Prisma color grigio, quando furono affiancati da una Bmw con a bordo i killer che spararono con due mitragliette calibro 9 parabellum, l’auto del giudice sbandò, si schiantò contro il guard raill a bordo strada, mentre i killer scesero dalla BMW e continuarono a crivellare di colpi le due vittime, fino ad ucciderle: in totale furono sparati 47 colpi. Subito dopo, la BMW servita per l’omicidio (che risultò rubata ad Agrigento una decina di giorni prima da un ladruncolo che poi venne assassinato per non lasciare testimoni) venne portata in una campagna a circa due chilometri di distanza dal luogo del delitto e lì data alle fiamme. Antonino Saetta è stato sepolto nel cimitero di Canicattì”. Ogni anno, nel giorno dell’anniversario si commemora quella data tragica, ma poi niente o quasi. Nessuno, accostando in quella che è una piazzetta di sosta per i veicoli “osa” adagiare un fiore alla stele anzi, a volte c’è chi lascia ben altro. Onore ad Antonio Saetta e al figlio Stefano anche senza fiori.