di Giuseppe Ballarò
Un Papa americano, ma non come te lo aspetti. Robert Francis Prevost, oggi Leone XIV, è il volto inatteso della nuova Chiesa. Nato a Chicago, vissuto oltre trent’anni a Trujillo, nel nord del Perù, non è il frutto di una carriera curiale, ma di una vocazione radicata nel mondo reale, in mezzo alla povertà, ai deserti, alla missione vera.
Agostiniano, ma con uno spirito da gesuita mancato, è stato formatore, guida spirituale e soprattutto testimone diretto delle ferite della Chiesa latinoamericana. Quando in Perù si affrontavano gli scandali legati agli abusi, lui era lì. Non in silenzio, ma in prima linea. Per questo, tra le mura vaticane, era già noto come “il vescovo scomodo”.
Dal Perù a Roma, il salto non lo ha trasformato in burocrate. Anzi. Prefetto del Dicastero per i Vescovi, poi cardinale per volontà di Francesco, oggi Papa con il nome Leone XIV: un richiamo diretto a Leone XIII, il Pontefice della Rerum Novarum, che parlava di lavoro, giustizia sociale, dignità umana.
Il suo pontificato si apre con parole semplici ma profonde: “pace”, “unità”, “ascolto”. Nessun anatema, nessuna trincea ideologica, ma anche nessun passo indietro. È figlio del Sud del mondo, ma con passaporto statunitense. Un cortocircuito che potrebbe trasformarsi in ponte tra il Vaticano e la Casa Bianca, ma soprattutto tra una Chiesa divisa e i fedeli che hanno perso fiducia.
Leone XIV non arriva da una carriera, ma da una vita vissuta nei margini, tra le parrocchie povere del Perù. La sua sfida sarà questa: tenere insieme i palazzi romani e le periferie del mondo cattolico. Riuscirà a farlo? Non è scontato. Ma forse è proprio questa radicale estraneità al potere a renderlo il Papa giusto per questo tempo.
In un mondo che cambia, forse anche la Chiesa aveva bisogno di un Papa che venisse da fuori. Che non cercasse di preservare, ma di rigenerare. Leone XIV potrebbe essere la risposta. O almeno, una nuova domanda.

