Il cartellone del Palacongressi Festival era iniziato alla chetichella con Valentina
Persia tra saggi di danza e cabaret, poi Fabrizio Gifuni con le lettere di Moro
ci costrinse a riflettere sul nostro “irridente silenzio” mentre questo terzo
spettacolo in cartellone “Racconti disumani” che Alessandro Gassman regista e
Giorgio Pasotti interprete hanno tratto da Joseph Kafka, ci sprofonda negli
inferi dello scrittore boemo con la sua visione dell’esistenza assurda e senza
senso, con l’individuo ridotto ad una cosa. Nelle metamorfosi si ritrova
trasformato in un insetto, nel Processo accusato di ancora più ignote colpe da
ignoti detentori della giustizia.. Adesso Alessandro Gassman memore degli
insegnamenti paterni che gli fecero amare Kafka (così ha rivelato in una
intervista) torna a frugare nei più remoti angoli letterari del praghese e ritrova
altre “vuote allegorie” kafkiane in due storie di animali. La prima storia quella
di una scimmia che ,dice Gassman, mette a nudo la superficialità di un modo di
essere attraverso comportamenti stereotipati e facili, l’altra, La Tana, che racconta
quel bisogno di costruirsi il riparo perfetto che ci metta al sicuro da ogni esterno,

La protagonista scimmia racconta come in cinque anni si adegua al sistema
umano per uscire dalla gabbia nella quale l’hanno rinchiusa dopo la cattura e
guadagnare un facsimile di libertà. Allusione a fatti e persone (agrigentine) è
puramente casuale. Come casuale occorre considerare il riferimento al
protagonista de La Tana che racconta, ricorda Gassman il continuo disperato
sforzo intrapreso dal protagonista, per metà roditore e per metà architetto di
costruirsi una abitazione perfetta, un elaborato sistema di cunicoli costruiti nel
corso di una intera vita per potersi proteggere da nemici invisibili. E nel
tentativo di lasciare tutto fuori costruisce passaggi e corridoi e nuovi tunnel che
portano al niente dei vicoli ciechi, una ricerca della sicurezza ossessiva che
genera solo ansia e terrore. Come abbiano fatto Gassman e Giorgio Pasotti ad
azzeccare il fatto che questi due racconti sembrano portare sulla verticale siculo-
agrigentina e la bombardano senza pietà come se fosse la nuova Dresda,
probabilmente tutto è dovuto alla magia del teatro. Quella magia del teatro che
racconta così bene la Mommina di Pirandello, cui la middle class agrigentina è
abituata. Qui niente luci sfavillanti, lustrini e convenevoli, non c’è manco l’odore
delle bettole di Mala Strana ma il vecchio fetore del sottosuolo mitteleuropeo.

Il metronomo degli applausi infatti ci consegna la novità che ad applaudire
decisamente i 65 minuti dell’one man show sono quei 500 o seicento giovani che
affollano gli ultimi posti del Palacongressi mentre dalle prime file popolate da
teste canute gli applausi sembrano di cortesia. Un pubblico che certamente si
riprenderà dalla frustata kafkiana tornando ad applaudire venerdi prossimo al
Teatro Pirandello “Il padre della sposa”. D’obbligo una ultima notazione che riguarda

la straordinaria colonna sonora di Pivio e Aldo De Scalzi e le
videografie essenziali di Marco Schiavoni.

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